La montagna parla di Dio

Vinicio conosce la montagna grazie al cugino paterno don Bartolomeo Dal Bianco, direttore di un collegio salesiano a Legnago. Fin dall’età di 16 anni, d’estate, si unisce ai ragazzi di don Bortolo che salgono in Val di Fassa per trascorrervi un periodo di vacanza. La mamma gli procura della farina ed altre semplici vettovaglie e con questi alimenti sale sul pullman (vedi foto) che lo porterà ai piedi del gruppo del Catinaccio. Nel suo diario, impreziosito da una stella alpina incollata nella copertina, scrive:

Lunedì 29-7-1940
Son trascorsi appena due giorni da quando, abbandonata la monotona pianura immersa nell’afosa temperatura estiva, siamo saliti quassù tra il fresco dei boschi, tra il mormorio delle acque, tra il silenzio e la solitudine dei giganti e già la bellezza, la grandezza, la varietà della montagna ci ha vinti, ci ha fatto suoi seguaci.
Ormai la lunga strada, l’asprezza del sentiero, le altre innumerevoli difficoltà che si possono incontrare non ci fanno più paura.
Son due giorni che siamo arrivati e siamo già abituati.
La pigrizia che in qualcuno s’era presentata con la speranza di trovare fecondo terreno per la sua ignobile esistenza e con la mira di divenire essa la padrona, la regina, la dominatrice della volontà, fu pienamente sconfitta dal fascino sempre più potente che la montagna emette dalle sue vergini pareti, dai suoi profondi precipizi, dalle sue alte vette.
Aveva ben ragione di dire il Sig. Direttore che quando la passione per la montagna, penetra nel cuore, pone le sue radici, ben difficilmente la si può sradicare. Lo stiamo constatando noi stessi che attendiamo con sempre più impazienza il momento di partire per arrampicare, per conoscere, per vedere cose che richiamano l’animo a considerare la grandezza e la sapienza Divina, per provare quelle emozioni che fanno palpitare forte forte il cuore.
Questa mattina c’era nell’aria odor di grandi altezze, di vere e proprie ascensioni, di 2800 metri. Infatti si doveva andare sulla “Pala di Mesdì” la cui altezza è di circa 2850 metri. Coloro che c’erano già stati l’anno scorso descrivevano la gita come una delle più belle e divertenti. Dicevano che si doveva attraversare un lungo nevaio ove occorreva fare appello ad un po’ di sangue freddo, che bisognava attraversarlo in cordata e che, se la giornata fosse bella, un panorama magnifico avrebbe ricompensata ogni fatica e sforzo compiuti. Io udendo tali descrizioni, pregustando già le gioie, le emozioni del nevaio, attendevo con ansia il momento della partenza, di lasciare il rifugio, di seguire il sentiero, di salire, di salire, di andare sempre più in alto, verso la vetta.
E venne questo atteso e desiderato momento, venne verso le ore 2: all’ora solita.
Formando una lunga fila indiana ci avviammo lungo il sentiero di ieri, quello cioè che conduce al rifugio Vaiolet e Preuss. Arrivati qui seguimmo il sentiero che conduce al Passo “Principe” giungendo dopo un’ora circa di cammino in vista del nevaio.
Era questo disteso lungo una stretta gola limitata da due altissime e gelide pareti dove mai raggio di sole vi riesce a penetrare. La sua lunghezza s’aggira sui 60 m. circa e molto spesso dev’essere lo strato di neve che lo forma.
Per primo lo superò il Sig. Direttore e poi noi calcando le orme, da lui fatte sulla gelida neve con la piccozza, e con l’aiuto della corda, assicurata ad uno spuntone di roccia, abbiamo potuto superarlo tutti felicemente, sebbene l’acuto freddo che ci gelava le mani avesse reso la traversata piuttosto difficile e pericolosa.
Dal nevaio della vetta non v’è molta strada per cui in men di mezz’ora vi potemmo giungere, accolti festosamente dal sole che proprio in quel momento faceva capolino tra la densa cappa nebbiosa che avvolgeva il bel cielo dolomitico.
Nel culmine di questa vetta s’innalzava una grande croce di legno simbolo dell’immortale potenza divina tra quelle vive rocce e tra i sassi che la sorreggono, difeso da due involucri di latta si trova un piccolo libricino ove ognuno che sale lassù pone la sua firma.
Dopo una piccola sosta e dopo aver dato uno sguardo al suggestivo panorama interrotto in qualche punto da densi banchi di nebbia, si riprese la via del ritorno, non più per dove eravamo venuti, ma attraverso il passo delle “Scalette” così chiamato per le molteplici scale e gradini naturali che lo compongono e che lo rendono uno dei passi più caratteristici del gruppo.
Al Rifugio, seguendo quel sentiero che costeggia le falde dei giganteschi “Dirupi di Larsc” si giunge verso le ore sette e mezzo al momento della cena consumata da tutti con onore.

Di estate in estate egli torna sempre in Val di Fassa dove riposa dopo gli studi o dopo le prime esperienze di Dirigente dell’Azione Cattolica, di uomo impegnato nella politica o da medico. Così nel 1954, stanco per tanto lavoro, raggiunge l’amico don Bortolo che lo aveva preceduto ed invitato ripetutamente tra quelle belle montagne. Le conosce molto bene: tra le altre ascensioni aveva raggiunto le cime della Winkler e del Catinaccio Rosengarten. La mattina del 17 Agosto 1954, dopo aver parlato con la sorella e la fidanzata che erano in vacanza in una località vicina a Pera, ottenuto il permesso, si incontra con don Bortolo e inizia la salita al Catinaccio Rosengarten. Sotto la parte sono i ragazzi del collegio. Poco dopo la partenza sulla via normale della parte est che sale seguendo una fenditura nella roccia, la tragedia: sembra che fosse proprio Vinicio a precedere il cugino: un appiglio non sicuro, un movimento brusco, un malore… Vinicio cade e trascina don Bortolo con sé nella caduta.
La morte è istantanea. Subito i ragazzi di don Bortolo portano la notizia al Rifugio che rimbalza immediatamente nella valle. Ai soccorritori non resta che raccogliere le spoglie dei due e comporli nell’obitorio del cimitero di Pera di Fassa.
Il mattino successivo vengono portati a Padova e nel pomeriggio a Perarolo dove ci celebrano i funerali. La folla che partecipa a questo funerale testimonia non solo il profondo dispiacere per la perdita di Vinicio e del cugino, ma anche la riconoscenza per il bene che Vinicio aveva fatto nella sua pur breve esistenza.
Quella montagna che era diventata il suo termine di paragone in tanti discorsi l’aveva effettivamente portata a Dio.
In questa lettera, scritta agli amici coetanei di Perarolo, che chiama fratelli (in Cristo) troviamo alcuni riferimenti alla sua passione per la montagna e come la montagna lo avvicinasse a Dio.

Rif. Catinaccio, 11 Agosto 1946
Carissimi fratelli,
Se la lontananza separa fisicamente, essa però rafforza, tra le persone che si amano, i vincoli dell’unione spirituale. Ed io sto provando, in questi giorni di più o meno invocato soggiorno dolomitico, la verità di quell’affermazione.
Forse qualcuno mi penserà immerso in una felicità beata, libero d’ogni preoccupazione e noia, di tutto e di tutti dimentico, tra il fresco dei boschi o l’ebbrezza delle vette, quasi in un nuovo paradiso terrestre. No, fratelli: le bellezze della natura sono doni di Dio che non possono non elevare l’anima, ma non sono sufficienti all’anima: essa aspira a meraviglie ancor più grandi, che non sempre, purtroppo, sappiamo darle.
Quindi, non vi meravigli il mio rimpianto per la pianura: rimpianto non motivato dal sentimento, né dalle attrattive della pianura, invero assai inferiori a quelle della montagna: ma dalla impossibilità di essere con voi, vicino alla vostra opera, accanto alle vostre difficoltà per porgervi un aiuto (quelle volte che lo accettate, perché qualche volta...). E’ un rimpianto che so superare solo con la preghiera: pregando mi par di essere con voi, vicinissimo, a contatto della vostra anima: mi par di sentire le vostre ansie e i vostri sospiri, e prego il Signore che li volga in vostro grande bene.
Sono quassù, tra catene rocciose gigantesche che si chiudono in un cerchio maestoso ed imponente, da cui si ergono svelte numerose vette ardite, quasi espressione di un desiderio profondo che la montagna sente di slanciarsi incontro al suo Creatore. E’ spettacolo continuo di grandezza e di forza, che invita l’animo a piegarsi su se stesso, e a meditare. Quante volte volgendo lo sguardo a queste guglie che da millenni lottano contro la furia degli elementi: gelose quasi che una parte di loro, anche piccola, possa essere trascinata verso il basso, ho pensato a me e a voi, fratelli: alla nostra viltà che ci fa deboli e incerti dinanzi alla lotta: tutto ci lasciamo asportare per l’assenza di un atto di forza, cioè d’amore: da vette che potrebbero guardare al cielo ci lasciamo ridurre in mortifera fanghiglia, incapace di riflettere anche solo un po’ di cielo.
No: la montagna non insegna questo. Insegna la fortezza: insegna ad essere grandi: a guardare in alto!
Com’è doloroso constatare che mentre nella natura si osserva tanta aspirazione al Cielo, invece nel re della creazione, in colui che più d’ogni altro dovrebbe avere grande questa sete di divino, vi sia così pazza foga di correre verso il basso, lontano dalla sua dignità, lontano da Dio. E a nulla e a poco valgono i richiami e gli inviti dell’Onnipotente, sempre Buono e Misericordioso: ormai s’è strappato la corona di re, e par contento d’essere schiavo di chi avrebbe dovuto padroneggiare. L’uomo non vuole essere veramente grande e forte: ama essere vinto e debole. Forse anche noi ci siamo trovati o ci troviamo in queste condizioni di inferiorità: sorgiamo! dobbiamo essere vette che vogliono arrivare al Cielo perché a questo Gesù ci invita: Egli sta in Cielo e non nel fango.
Fra qualche giorno quasi tutti partirete per gli Esercizi Spirituali: che la vostra meta sia questa: acquistare tanta grandezza e forza per non rinunciare mai all’ascesa del Cielo: là troverete pace per il cuore: riposo e felicità per l’anima.
Ricordatevi di me: ricordatevi della vostra associazione e di tutta l’A.C.: dei suoi Assistenti Ecclesiastici.
Tutti salutandovi nel Signore, con tanto affetto vi abbraccio
vostro Vinicio.
Scusate questa fine così affrettata: devo partire subito: ci attende la parete Est del Catinaccio: (circa) 4-5 ore di arrampicata! Nel Signore vostro Vinicio.